Il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che compie ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio culturale, materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano in modo etico e professionale e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze.
Individuare precisamente cosa sia un museo può sicuramente risultare complesso, data la molteplicità di oggetti che costituiscono le collezioni e la diversificata natura che le organizzazioni possono assumere. La definizione citata è da riferirsi specificatamente ai musei di natura pubblica—senza scopo di lucro—ma comunque applicabile per finalità—attività di ricerca, collezione, conservazione, esposizione e interpretazione del patrimonio—e intenti—accessibili e inclusivi, promuovono la diversità e sostenibilità, favorendo la partecipazione delle comunità, organizzando esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze—genericamente a tutti quei luoghi che comunemente associamo al termine museo. É necessario sottolineare questi aspetti, senza entrare nel merito se sia l’esplicitazione più efficace di un concetto così complesso, proprio per poter fissare i due campi di azione principali che costituiscono i pilastri fondamentali di tale istituzione nella nostra società: la collezione e il pubblico.
Se il primo può riferirsi ad una serie di attività di settore, prettamente legata alla selezione e la preservazione di testimonianze significative dell’umanità passata e presente, da tramandare al domani; il secondo legame con il pubblico determina la sua importanza nell’ attualizzare, nel senso di diffondere sapere e conoscenza intorno ai beni per sviluppare consapevolezza nell’oggi. Questo aspetto risulta ancora più determinante proprio perché costituisce l’unica strada percorribile per concretizzare e mantenere vivo il loro valore, nell’ottica dunque di mantenere viva la loro valenza culturale per il futuro, attraverso la cura e la reinterpretazione collettiva. Sottesa a questa visione, vi è ovviamente la convinzione che questo spazio eterotopico possa essere un luogo per l’elaborazione di coscienza culturale e soprattutto sociale.
Da un discorso generalista, il presente saggio entra nel particolare delle collezioni d’arte moderna-contemporanea, dove spesso l’opera è considerata una categoria privilegiata di oggetto museale in quanto capace di instaurare un rapporto di carattere emotivo inconscio, evocatore di sensazioni e produttore di coinvolgimento, che quindi apparentemente, non necessiterebbe di mediazione tra esso stesso e l’osservatore. In realtà, questo discorso è raramente applicabile al contesto dell’arte contemporanea, spesso di difficile apprezzamento al primo sguardo, proprio in assenza di una narrazione che ne sappia esplicitare gli intenti:
«Sightings fall like heavy objects from one’s eyes. Sight becomes devoid of sense, or the sight is there, but sense is unavailable.»
Le parole di Robert Smithson del 1967 inquadrano questo sentimento, condiviso da molti artisti del suo tempo, che si allontanarono dall’ istituzione museale—considerata una vera e propria tomba per l’arte—quanto dalle gallerie, cercando nuove possibilità di dialogo ed esperienze con il pubblico portandolo al di fuori delle sue mura ormai troppo oppressive e stringenti, per realizzare le loro opere nelle infinite distese dell’America più desolata. Proprio la generazione di Smithson e gli anni sessanta del Novecento, metteranno a ferro e fuoco le tradizionali regole del mondo creativo: con la loro attenzione alla sperimentazione di materiali e supporti, ampliarono i confini e le definizioni dell’arte stessa, includendo video, film e computer, cercando ispirazione in numerose discipline, tra cui la tecnologia e la scienza, ambiti che si svilupparono in parallelo, fino a quegli anni. Infatti, la tecnologia e l’arte si costituivano come due settori di lavoro e ricerca completamente specializzati e separati, che per la prima volta entrarono in sinergica cooperazione attraverso una diretta contaminazione tra le discipline— la fondazione nel 1967 dell’ Experiments in Art and Technology (E.A.T.) è una delle espressioni più rappresentative.
A tracciare le esperienze proficue di queste pratiche, nel 1968 viene aperta al pubblico l’esposizione Cybernetic Serendipity: the computer and the arts all’ ICA (Institute of Contemporary Art) di Londra, curata da Jasia Reichardt, con l’intento principale di mettere in luce quelle manifestazioni frutto dell’utilizzo della macchina—computer, dispositivi cibernetici, robot—come principale mezzo creativo. L’ esposizione venne poi riproposta negli USA, con una tappa a Washington e l’altra a San Francisco; alla quale seguirono altri due fondamentali eventi che confermarono il processo di affermazione di questa tendenza artistica: The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age dello stesso anno, 1968, al MoMa e nel 1970 Software – Information technology: Its New Meaning for Art, al Jewish Museum di New York. Le tre occasioni espositive, ognuna specifica nel raccontare sfumature differenti dell’ampio spettro di nuove possibilità espressive e nel rintracciare una storia che connettesse la macchina e l’uomo, hanno avuto il merito di inquadrare aspetti essenziali e fondanti di un’evoluzione tecnico-artistica ancora oggi interessanti e valide: la difficile definizione dell’oggetto artistico all’interno di categorie specifiche, (come la scultura o la pittura), in quanto l’unione delle discipline favorisce una complessità visiva e concettuale, tanto che per i visitatori risultava impossibile, senza la lettura dei testi di accompagnamento, comprendere se ciò che era presentato in mostra fosse prodotto da artisti, ingegneri o architetti. Questo perché grazie ai nuovi mezzi, anche chi non si era mai interessato ai problemi creativi, incominciò a indagare le possibilità generate dagli output visuali prodotti da essi, con il desiderio di esplorare, per puro piacere, la materializzazione di un’immagine. Tra le altre considerazioni della curatrice stessa, come commento alla mostra, la più significativa è sicuramente: «Thus people who would never have put pencil to paper, or brush to canvas, have started making images, both still and animated, which approximate and often look identical to what we call “art” and put in public galleries».
Ad oggi la figura dell’artista è forse ancora più complessa: la sua educazione non passa obbligatoriamente attraverso un tradizionale percorso di formazione delle abilità artistiche accademiche. Questo è dovuto soprattutto al fatto che i new media, si pongono come mezzi in grado di implementare i tradizionali strumenti, quindi affiancandosi ad essi e portando in gioco nuove competenze—non quindi la macchina come sostituto dell’uomo ma come ampliamento di possibilità a cui potersi rifare—consentono di estendere a più campi la ricerca artistica, così che al contempo, la creatività viene individuata in più settori e pratiche di studio—si pensi ad esempio alle visualizzazioni di dati realizzate da Albert Laszlo Barabasi che diventano percorso espositivo e installazione immersiva al MEET Digital Cultural Centre di Milano. Nella storia dell’arte quindi i punti d’incontro si possono constatare a partire dal fatto che la tecnologia sia alla base dell’arte di tutti i tempi, in quanto insieme di strumenti e conoscenze che caratterizzano un’epoca—ad esempio la prospettiva nel Rinascimento. La stessa parola “tecnologia” deriva dal greco come composto di téchne—arte del saper fare, abilità e perizia di un sapere pratico—e logìa—discorso, atto del dire. Nel contesto contemporaneo la dimensione della tecnologia è un sistema ulteriormente pervasivo in quanto riveste molteplici ambiti della vita quotidiana dell’uomo costituendosi come estensione di noi stessi, un paradigma che si concretizza in macchine e infrastrutture: una vera e propria rete da cui non possiamo più definirci scissi. Conseguentemente, essa modella, in una certa misura, le nostre capacità di percezione, visione e comprensione; James Bridle nel suo testo Nuova era Oscura, sottolinea come questo aspetto non debba essere interpretato come forma passiva dell’uomo davanti alle conseguenze di tale modello, come se le azioni della rete siano innate e inevitabili. Il rapporto da instaurare con la tecnologia deve essere ragionato oltre il pensiero computazionale, a favore di un’alfabetizzazione sistemica che sappia considerare cause e conseguenze. Questo infittisce e aggroviglia l’attuale panorama culturale che richiede consapevolezza, soprattutto alla luce delle nuove tecnologie emerse: nate dal settore fintech sono state velocemente adottate dal sistema economico- produttivo dell’arte, rivestite da una narrazione ideologica utopica-mistica che esige un ulteriore sforzo di comprensione per un utilizzo critico e consapevole. Davanti all’ avvento degli NFT e della Blockchain prima e l’enfasi per le sperimentazioni di opere generate con l’A.I. poi, in questi anni, le istituzioni culturali si sono mosse positivamente, dove anche i musei più tradizionali hanno partecipato all’assimilazione e l’adozione di questi nuovi strumenti sia per la produzione d’arte, sia dal punto di vista di comunicazione e coinvolgimento del pubblico.
Alla luce di queste considerazioni, riprendendo il discorso intorno alle due principali sfere di attività individuate all’inizio del saggio come caratterizzanti dell’organizzazione museale—la collezione e il pubblico— si affrontano le recenti notizie che riguardano appunto l’utilizzo e l’adozione degli NFT all’interno di istituzioni culturali, in particolare il MoMa di New York. Si puntualizza, il sistema culturale americano risponde ad un programma legislativo, organizzativo ed economico completamente diverso da quello europeo, specialmente da quello italiano: il sostentamento tramite fondi-sponsorizzazioni, il rapporto tra pubblico-privato, nasce da una diversa e stratificata accezione del concetto di heritage e museo stesso, frutto anche della storia più “giovane” della nazione. Questo è sicuramente un fattore da tenere in considerazione per valutare alcune scelte e posizioni prese, soprattutto se si pensa a questioni come la normale vendita da parte di istituzioni di capolavori delle loro collezioni, o ancora, le erogazioni di importanti fondi da big corporation che potrebbero lasciare qualche perplessità intorno alla neutralità di quest’ultime sull’attività e la gestione del museo. Invariato rimane però il fatto che il museo costituisca il fulcro di un’ elaborazione continua e necessaria per la produzione e condivisione di sapere: quando un’opera contemporanea entra nella collezione di un museo, oltre ad essere un riconoscimento dell’artista e del suo lavoro in quanto rilevante per l’attuale contesto, si stabilisce il suo ingresso nella storia dell’uomo, come testimonianza del momento storico che l’ha generato— e gli NFT sono stati riconosciuti come tali, basti pensare alle acquisizioni del Centre Pompidou a Parigi: 18 progetti francesi e internazionali sono ufficialmente parte della collezione . Proprio sul concetto di patrimonio ragionano gli NFT di Refik Anadol realizzati in primo luogo per la vendita all’asta sulla piattaforma Feral File, e successivamente soggetto dell’esposizione Unsupervised, della serie Machine Hallucinations–MoMa, dove la collezione permanente del museo—composta da più di 200 anni di storia dell’arte—è stata filtrata attraverso il concetto del “sogno e visione” da parte di una macchina. Questa rielaborazione è frutto di un meccanismo chiamato StyleGAN2 ADA, una sofisticata machine-learning che si basa su un modello di apprendimento automatico per l’interpretazione dei dati—138.151 metadati di immagini— pubblicamente disponibili, delle opere del MoMA. Dal 2016, l’artista e il team del suo studio, hanno utilizzato l’intelligenza artificiale come collaboratore: dati e risorse digitali pubblici, vengono raccolti e analizzati per la creazione di immagini dinamiche dal forte carattere installativo, date le grandi dimensioni e gli effetti sonori di accompagnamento che concorrono alla costruzione di un ambiente fortemente spettacolare ed immersivo. Venduto sotto forma di NFT a fine del 2021, il progetto di Unsupervised, è stato esposto al Museum of Modern Art di New York da novembre 2022 fino a marzo di quest’anno, per poi annunciare il suo proseguimento con l’iniziativa “NFT Burn Mechanism,” sempre in collaborazione con Feral File e il museo, che si è tenuta dal 19 al 21 maggio 2023.
Le opinioni suscitate in merito alla legittimità della realizzazione rispetto alle finalità e gli ideali che l’intervento si propone di perseguire—“reinventare la storia dell’arte”, “comprensione alternativa del fare arte”— sono contrastanti, ma vedono le voci più autorevoli della critica d’arte contemporanea unite in una forte critica verso quella che viene riassunta come “una glorificazione delle lampade lava.” Nelle molteplici recensioni all’esposizione, infatti, l’operazione di Anadol viene spogliata dalla narrazione spettacolare e metaforica che alla fine costituirebbe il vero impatto sui visitatori, piuttosto che l’opera in sé. Quello che emerge chiaramente, è l’idea di una scenografica installazione ambientale site-specific ben riuscita, se considerata come forma di superficiale divertimento visivo che però si presenta completamente priva di contesto culturale e sociale. Perché i dubbi che emergono in primo piano davanti a questi interventi pongono una riflessione su quale tipo e la qualità delle connessioni vengono realmente creare tra il presente e il passato; quindi quali nuovi stimoli l’archivio e la memoria possano sollecitare nel presente trovando una nuova significazione.
Chiaramente il problema non sta nell’utilizzo delle nuove tecnologie—se non nei termini in cui ne parla R.H. Lossing nell’articolo dedicato alla mostra su e-flux—bensì nella ridondante propaganda fine a se stessa, dove l’intervento di Anadol non sprona a una rivalutazione dei meccanismi di produzione del sapere ma gioca sulle dinamiche del volatile mercato dell’intrattenimento. E nei medesimi termini, la tecnologia non muove nuove possibilità di coinvolgimento e accessibilità nella dimensione del pubblico. Il sistema della blockchain e degli NFT è stato impiegato in tre differenti momenti: prima, durante e dopo l’esposizione al MoMa. Dalla prima asta, dalle cui vendite il MoMA ha ricevuto delle percentuali, lo strumento degli NFT è diventato un free mint di 5000 opere esclusive—a edizione limitata—come certificato di partecipazione per i visitatori, in quanto collezionabile in loco attraverso un QR—sostanzialmente un POAP. La notizia del “burn mechanism” è l’ultima delle applicazioni: la trasformazione degli NFT in ricompense, con 3 differenti pacchetti a seconda di quante edizioni si bruceranno, per molteplici vantaggi come accessi speciali alle attività future, tra cui anche un Pass giornaliero per accedere gratuitamente al MoMA. L’iniziativa che richiama l’azione di Damien Hirst The Currency, ha riscosso un grande successo, dove il principale scopo è stato attrarre nuovi collezionisti e incentivare le vendite secondarie. Il fatto di istituire un sistema di relazione ancora di privilegio ed esclusività è sicuramente da inserire nel filone di propaganda che sfrutta più l’hype, piuttosto che la ricerca di nuove prospettive che queste nuove tecnologie possono offrire.
La cosa realmente interessante da questo punto di vista, sarebbe proprio esaminare un’applicazione mirata alla gestione delle relazioni con il proprio pubblico, volta al consolidamento del rapporto con l’abituale visitatore e, al contempo, individuare e incentivare la nascita di nuovi legami con chi non ne fa ancora parte. Su quest’ onda, il museo è da anni che ragiona in termini di gamification dell’esperienza, concetto che costituisce il contesto originario e di provenienza delle nuove tecnologie come gli NFT; dove con il termine gamification si vuole sottolineare la dimensione ludica dell’apprendimento a favore di un arricchimento del pensiero creativo. Logicamente il lavoro da sviluppare inizia con una forte consapevolezza che l’uso di questi strumenti deve essere misurato e mosso dalla volontà di capire le funzionalità e la ricaduta effettiva sul proprio pubblico, ponderando le scelte sulle conseguenze che questo tipo di esperienze possono avere.
In questo senso, le mostre citate all’inizio di questo intervento— prima tra tutte Cybernetic Serendipity— si ripropongono come esemplari di valore nel tentativo di avvicinare le tecnologie del proprio tempo alla comprensione del pubblico generalista, diffondendo non solo conoscenza e sapere ma soprattutto la curiosità di sperimentare creativamente con esse.
Nel frattempo, il 10 maggio anche Casa Batllò a Barcellona è arrivata nel mondo blockchain sotto forma di NFT dinamico con il progetto Living Architecture, sempre frutto della rielaborazione artistica di Anadol, dove pressappoco utilizza la medesima narrazione sognante proposta al MoMa. Della documentazione video del 7 maggio— data in cui l’opera è stata proiettata grazie a un lavoro di video mapping sull’edificio patrimonio UNESCO di Gaudì, davanti a 50.0000 spettatori—- la cosa che lascia più interdetti è la sparizione completa del movimento che la facciata presenta nel suo abituale e lento esistere, anche all’occhio del passante più distratto. La meraviglia di questa architettura si racchiude nella naturale vita che le sue forme e i suoi colori generano al naturale e semplice cambiamento della luce, quando il trascorrere del tempo e del sole agiscono quotidianamente sulla sua pelle viva.